Se non è digitale non è vero marketing

Che cos’è il digital marketing? Il digital marketing esiste davvero? Intendo dire… si può ancora immaginare un marketing che faccia a meno degli strumenti digitali, delle attività online? A mio avviso no. Non esiste differenza tra il marketing digitale e il marketing “tradizionale”, salvo il fatto che ora tutto il processo d’acquisto può completarsi online. Ma questa non è altro che una normale evoluzione.

Dovremmo chiamare tutta questa roba semplicemente… Marketing.

E allora perché si insiste così tanto su quest’aggettivo? Io credo che sia per una sorta di paura. La paura di non saper maneggiare tutta la massa di strumenti e concetti che negli ultimi anni hanno inondato le nostre vite attraverso lo schermo del telefonino.

In effetti, invece di salutare con entusiasmo le nuove possibilità tecniche, abbiamo finito per confondere gli strumenti con gli scopi, Ci siamo riempiti la professione di indicatori e target come se il marketing potesse esaurirsi in essi e ci siamo dimenticati che anche la bussola e il sestante sono inutili, se non sappiamo a quale porto vogliamo arrivare.

Però è vero che l’ingresso del digitale nel marketing ha creato una vera e propria frattura tra il “prima” e il “dopo”, portando con sé due importantissime conseguenze.

Il marketing prima e dopo l’iPhone

La prima di queste conseguenze riguarda ciò che sappiamo sui clienti.

Quando Apple lanciò l’iPhone nel 2007, l’e-mail marketing, la SEO e il SEM erano la frontiera più avanzata del marketing. I Big data esistevano già, ma non si chiamavamo ancora così. Li raccoglievano le catene della grande distribuzione con le Loyalty card. Non sapevano bene cosa farsene e  perciò ci fidelizzavano i clienti con le raccolte a premio. Nei punti di vendita le cose andavano un po’ meglio, perché si potevano fare studi di Category Management, test per l’introduzione di nuovi prodotti  e valutazioni per ottimizzare i percorsi d’acquisto. Più o meno era tutto qui.

Sui clienti sapevamo poco e quel poco lo scoprivamo con focus group e indagini di mercato. Questi studi erano lenti, costosi e offrivano risposte generiche, riferite all’universo indifferenziato di certe categorie di clienti.

Poi tutti abbiamo comprato uno smartphone e – senza nemmeno rendercene conto – abbiamo iniziato a fornire informazioni sui nostri gusti, le nostre famiglie, i nostri amici, le nostre preferenze sessuali e politiche. E ancora: sull’auto dei nostri sogni e quella che ci potevamo permettere e sulla destinazione e la durata delle nostre vacanze. Mentre noi guardavamo facebook e Google, loro guardavano noi e imparavano. Lo facevano già quando ci collegavamo dal computer, ma la quantità di dati era infinitamente minore. Ora siamo connessi e monitorati ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette. Scopriamo i prodotti online, li scegliamo online e li compriamo online.

Prima degli smartphone i dati glieli davamo noi. Da quando ne abbiamo uno sempre in tasca, se li prendono da soli. E lo fanno con un consenso che concediamo fin troppo facilmente.

Le cose che sappiamo sui clienti

In questo modo, grazie alla grande disponibilità di dati, possiamo capire meglio il Customer journey (processo d’acquisto del consumatore) definire con maggior precisione le nostre Buyer persona (i clienti ideali) e poi immaginare un processo di  Inbound Marketing con Funnel di vendita e  Lead generation.  Con il funnel progettiamo il percorso con cui incrociamo il nostro pubblico potenziale in uno dei molti touchpoint che frequenta, attiriamo la sua attenzione, gli facciamo una prima proposta di saggio e in seguito alziamo il tiro, lo facciamo diventare cliente e poi lo fidelizziamo.

E non è tutto qui, perché una volta che il cliente abbia fornito dati a sufficienza, non appartiene più al generico cluster di individui cui somiglia per sesso, gusti, abitudini e residenza. Ora Facebook, Google  e molti altri possiedono il suo  preciso profilo psicografico e lo mettono a disposizione del marketing  in diversi gradi di dettaglio.

Persino, noi, se lavoriamo bene con metodo, magari con un sistema di CRM, possiamo capitalizzare quella conoscenza e accrescere il valore complessivo della relazione. E farlo per tutta la durata della sua e della nostra vita. Sappiamo bene che trovare nuovi clienti è molto più costoso che fidelizzare quelli  acquisiti, perciò li fidelizziamo. Infondo, perché non restare insieme “finché morte non ci separi”?

Marketing One to One

Con queste informazioni possiamo creare messaggi ed iniziative di marketing letteralmente diverse per ogni persona del pianeta. È questa la prima conseguenza del digitale: l‘epoca dei messaggi e delle iniziative “one to many” è finita. Ed è iniziata quella delle comunicazioni e dei progetti di marketing “One to one”.

Come sappiamo, questa materia è eticamente molto delicata. I rischi di violazione della privacy e di manipolazione sono molti. Gli scandali di Cambridge Analytica, con il supporto alla Brexit e all’elezione di Trump lo hanno confermato. Noi qui possiamo limitarci a considerare il lato positivo: una maggior efficienza nell’invio di messaggi pertinenti a persone che potrebbero trarne un vero vantaggio.

Il Marketing conversazionale

La seconda, incredibile, innovazione introdotta dagli strumenti digitali nel marketing è che ora i clienti possono rispondere ai messaggi che gli inviamo: la comunicazione è biunivoca, è un’interazione.

Possiamo smettere di fare ipotesi e – invece – chiedere esplicitamente la loro opinione. Possiamo ascoltare delle richieste specifiche e aumentare il livello di servizio che forniamo.

Si tratta dell’occasione, mai avuta prima, di interagire con il pubblico e ottenere linee guida per sviluppare prodotti e servizi che rispondano davvero ad una domanda di mercato. Esplicita o latente che sia.

In questo modo si diffonde ad ogni categoria il concetto di “Ready to Customer Order”  e si riduce il rischio di produrre beni che resteranno invenduti. Tutta la catena della Lean production e il Just in time hanno finalmente un senso compiuto.

Ma anche il cliente non è più passivo. Può scambiare informazioni sul nostro prodotto o servizio e non soltanto con noi: fa parte di una o più community, influenza altri e ne è – a sua volta influenzato.  In questo modo è nata una democrazia globale dei giudizi e delle opinioni. Le valutazioni dei pari contano quanto quelle degli esperti e a volte anche di più, perché riguardano il 100% dell’esperienza dell’utente comune.

Governare queste relazioni è certamente molto complesso, perché i punti di contatto sono innumerevoli e le conversazioni avvengono quasi sempre in pubblico, dove tutti potranno notare atteggiamenti evasivi o non rispettosi.

In tutti questi punti di contatto dobbiamo interagire con coerenza, uniformità di stile e tono di voce appropriato. Il digitale aumenta le potenzialità, ma anche i rischi. La reputazione si costruisce lentamente, ma si può distruggere in un istante.

Le insidie del marketing digitale

Perché sono rilevanti questi due cambiamenti prodotti dagli strumenti digitali di marketing, profili psicografici precisi e molteplici interazioni? Perché con tutte queste informazioni e interazioni, sarebbe lecito attendersi beni e servizi migliori, più efficienti e a buon mercato. È quel che sta accadendo davvero? Sembra di no. O, perlomeno, non su vasta scala.

Sta accadendo, però, qualcosa di imprevisto: la disponibilità di tecnologia evoluta a basso costo ha accresciuto sensibilmente il ricorso a questi strumenti anche da parte di chi, prima, non avrebbe avuto il budget necessario. Il numero di aziende e professionisti che oggi si contendono online l’attenzione e il tempo dei clienti – sempre gli stessi – è praticamente esploso.

La convinzione che si debba giocare su tutti i tavoli, ha indotto moltissime imprese  e organizzazioni, anche piccole, a moltiplicare i touchpoint nei quali sperano di intercettare i clienti. In questo modo, non soltanto essi finiscono per essere ripetutamente esposti  ai medesimi messaggi, ma ciò alza anche i costi di gestione, in quanto richiede la necessità di presidiare  efficacemente i “luoghi” in cui avvengono questi scambi.

Per contenere tale incremento imprese e organizzazioni sono indotte a ricorrere ancora una volta alla tecnologia, con soluzioni automatizzate.

Perciò appena atterrati su un sito, si viene assaliti da un bot petulante che offre il proprio aiuto, il gestore telefonico, risponde con un sistema basato sull’intelligenza artificiale (e magari non risolve il problema)  e Alexa cerca di vendere abbonamenti musicali “unlimited”. Queste modalità di interazione, tuttavia, rischiano di aggravare il problema che vorrebbero risolvere.

Questo inquinamento informativo e relazionale finisce per abbassare la soglia dell’attenzione e la reattività alle nuove comunicazioni. Inoltre,  gli utenti del web  cominciano ad adoperare contromisure come gli Ad-blocker, ossia applicazioni per il blocco della pubblicità.

Si reagisce come si può: le persone potrebbero anche essere interessate a questi messaggi, solo che si sentono braccate.

Ripensare il marketing digitale

Oltre ai problemi di sovraccarico, esiste un altro rischio, anche maggiore: quello di riporre tutta la fiducia negli strumenti digitali e dimenticare la strategia.

Perché anche ora che sappiamo tutto sui clienti, ora che possiamo decidere di far recapitare un messaggio ai soli  insegnanti di scuola elementare maschi, con famiglie tradizionali, che hanno tre bambini e vivono nella piana di Gioia Tauro, in una casa di proprietà e amano ti cani albini … di cosa gli parliamo? E cosa ne facciamo, delle loro risposte?

Ad esempio, abbiamo stabilito che sono queste le nostre buyer persona. Ce lo dice il nostro intuito oppure i nostri strumenti. Perciò l’intenzione d’acquisto sarà elevata e quello è un target promettente.

Rimangono, però, da prendere le decisioni importanti su cosa produrre e dove, per quali clienti, con quali costi e con quale Strategia di prezzo.

Non saranno la SEO, i big data, la Content Strategy, il Click-Through Rate, le interazioni con un post di facebook o qualche altro KPI a dare una risposta a queste domande. E neppure ci aiuteranno a decidere se entrare in un mercato valutando il tasso di affollamento dei competitor e i margini di profitto. Non sarà il marketing online a formulare la nostra Value proposition o stabilire il posizionamento ideale del nostro brand.  I suoi indicatori sono soltanto utili strumenti che servono per correggere la rotta. Non risolvono le questioni fondamentali sulla direzione da prendere.

Tutte queste cose – invece – le dovremo stabilire con un piano di marketing strategico fatto alla vecchia maniera. È quel piano che, in maniera coerente con gli obiettivi, stabilirà se le attività online dovranno avere un ruolo e quale sarà. Proprio, come è sempre stato per qualsiasi attività operativa di marketing.

Senza queste competenze fondamentali, c’è il digital, ma non il marketing e noi siamo al massimo dei bravi timonieri, non degli ammiragli.

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